Voi siete qui: un punto sulla mappa
Più di dieci anni fa, alla fine del tour elettrico per la promozione del mio secondo disco, Una vita nuova (Novunque/Self, 2005), decisi di lanciarmi subito in un nuovo giro, in solo, con le mie chitarre e il pianoforte dove disponibile. Sarebbe durato un anno intero, portandomi da nord a sud dello stivale in un sacco di date (Gesù, non ci voglio pensare), mi avrebbe fatto capire un sacco di cose di me, della mia musica, di come si sta su un palco, di come si racconta una storia dall’inizio alla fine, e avrebbe fatto sbocciare grandi amicizie e nuove collaborazioni. Avevo deciso di intitolare il tour Aspetto la bellezza, citando il ritornello di un brano del mio primo disco, La superficie delle cose (Novunque/Self, 2003). E mi ricordo che dopo una decina di date, riflettendo su quel titolo e sulle storie che volevo raccontare in quei concerti, ogni sera avevo iniziato a dire al pubblico che solo per la durata del concerto, il verbo “aspettare” avrebbe dovuto essere inteso come “andare incontro”, “muoversi verso”, che io non sono mai stato capace di aspettare e soprattutto credo nell’azione come unico modo di influenzare la realtà.
E la mia musica infatti è sempre stata musica “da battaglia”: non amo piangermi addosso né mi sta simpatico chi lo fa – abbiamo pochissimo tempo qui su questo pianeta sempre più caldo, e sprecarlo a maledire il destino, la vita o chi per lei non mi è mai parsa un’attività fruttuosa.
You can hide 'neath your covers and study your pain
Make crosses from your lovers, throw roses in the rain
Waste your summer praying in vain
For a savior to rise from these streets[1]
Quindi la mia musica è sempre partita dalla constatazione di una situazione oggettiva – reale o solo mentale – per cercare di individuare una via d’uscita, di spingere all’azione, a una reazione. Alla rivolta. Interiore o meno. Per gran parte della mia vita mi sono sentito come un personaggio shakespeariano che non ha la capacità di leggere la realtà intorno a lui. Otello, ad esempio, oppure Macbeth e sua moglie, vittime e carnefici allo stesso tempo in un dramma in cui nulla è davvero ciò che sembra e la realtà assume i toni spettrali di una brughiera popolata di streghe i cui sortilegi confondono la vista e i desideri. Fair is foul e foul is fair[2], nulla è ciò che sembra e noi finiamo per non capirci più niente. Non riusciamo più a distinguere la vita reale da quella sognata o immaginata.
Tutti noi abbiamo
una vita che è vissuta
e un’altra che è pensata,
e l’unica vita che abbiamo
è quella che è spartita
tra la vera e l’immaginata.[3]
Ieri sera, a cena con un amico, si parlava di ciò che si parla sempre da due anni a questa parte. Come se ne esce? E nello specifico, a livello personale ed esistenziale, come trovare la forza e la fiducia per reagire alle difficoltà attuali – difficoltà che per alcuni sono solo interiori, per altri esterne, per altri ancora un mix delle due cose. E come al solito ci siamo trovati d’accordo nello stabilire che l’unica cosa che conta è il movimento. La tensione verso qualcosa. La ricerca. Facile a dirsi, difficilissimo da mettere in atto, di questi tempi. Certo, è vero. Anzi, verissimo. Ma proprio perché i tempi sono questi, in cui il disastro sociale e politico del Paese è venuto a fare il paio con la situazione sanitaria che bisogna sforzarsi di alzare nuovamente lo sguardo verso un futuro che al momento nessuno di noi riesce neanche a immaginare. E quindi torniamo sul discorso dell’aspettare, del tramutare l’attesa in un movimento, in un passo, un pensiero, un gesto. L’età adulta per me, se è mai davvero iniziata, ha avuto inizio quando ho accettato il fatto che magari la risposta sta nella domanda stessa, nell’avere la forza di rivolgersela davvero. E nel senso dell’azione in quanto tale. Nel movimento. Ragione del movimento non è il luogo dove si pensa o si spera di arrivare, ma il movimento stesso, che può dare senso ai minuti, alle ore, alle giornate. Sembra una magra consolazione, assomiglia pericolosamente alla scommessa di Pascal – comportati come se Dio e il paradiso esistessero davvero, se poi non esistono perlomeno avrai vissuto da persona virtuosa. Più che altro a me pare una pratica quotidiana, una pratica di salvezza, un lavorio di semina, sperando poi che la natura faccia il suo corso, che germogli qualcosa, fiorisca, si faccia frutto e che il vento disperda i semi per farlo germogliare nuovamente in qualche altro luogo inaspettato, e così via, in una catena potenzialmente infinita che nasce da quel primo e fondamentale gesto: apri la mano, getta qualcosa nella terra, e vai avanti.
Quanto è andato perduto
e che cos’era?
Il cavallo nei campi,
i lampi della sera arresa,
stanca di guerra già prima di una nuova lotta?
I denti, i denti
per mordere il pane
e smettere di pronunciare le parole
disastro
disfatta
distanza.
E io, in questa stanza,
che non sono più qui.
Questa l’ho scritta l’altro giorno, in quello che mi sembra sempre più un lungo colloquio con me stesso – al di là del carattere confessionale che hanno a volte queste mie cose che scrivo, ultimamente ho l’impressione che io le partorisca e le usi inconsciamente come un modo per capire dove mi trovo nella mappa della mia esistenza, in che punto sono arrivato e dove invece non sono più. Così che a volte, quando ho finito di lavorarci e le rileggo, alcune cose mi appaiono più chiare.
In ogni caso, oggi è di nuovo il 2 gennaio – succede ogni anno. Per quanto sfiduciati, scossi, stanchi e timorosi – e anzi, forse proprio per questo – ci sono dei passi che ci aspettano, bisogna liberare le gambe, e andare. Da qualche parte, in un chissà dove indistinto e lattiginoso, per il momento, ma andare.
[1] Puoi nasconderti sotto le coperte e studiare il tuo dolore / scartare uno dopo l’altro i tuoi amanti, gettare rose nella pioggia / sprecare la tua estate pregando invano / che un salvatore sorga su queste strade. Bruce Springsteen, ”Thunder Road”.
[2] William Shakespeare, Macbeth, Atto I, scena 1.
[3] Fernando Pessoa, Poesie di Fernando Pessoa, a cura di A. Tabucchi e M.J. de Lancastre, Adelphi.