Siamo vivi, ecco tutto
Milano, venerdì, nove del mattino, sono sulla 90, una frenata brusca, una signora rischia di cadere, cerco il contatto visivo e le chiedo se è tutto ok, sì mi risponde. Arriviamo al capolinea di piazzale Lotto, scendiamo per prendere il mezzo già fermo in attesa davanti al nostro. Salgo e mi siedo accanto al finestrino. Grazie per prima, mi dice una voce dietro di me. La signora si è seduta al posto alle mie spalle. Le dico che dobbiamo recuperare un po’ di gentilezza e di attenzione per gli altri. Annuisce dietro la mascherina, forse sorride, mi sembra di intuirlo dalle due rughe che si approfondiscono accanto ai suoi occhi, che sembrano chiudersi leggermente.
Sto andando in studio a lavorare al nuovo disco. Prima, in metropolitana, saltavo dagli aggiornamenti sulla guerra alla nuova raccolta di poesie di Valerio Magrelli, Exfanzia. Molto strano andare in studio a lavorare a un disco in questa situazione. Per non parlare della morte di Lanegan. E io oggi devo cantare. Mentre leggo Magrelli c’è un’immagine tra le tante che mi colpisce un po’ di più. Mi resta subito attaccata addosso, mi faccio un appunto mentale. Giuliano (Dottori, il produttore del disco) mi aveva chiesto di scrivere un’altra strofa per un brano a cui stiamo lavorando. È la prima volta che mi lascio guidare in questo modo, in studio. In ogni altro disco mi ero sempre tenuto l’ultima parola. Stavolta ho deciso di cambiare, di provare a fare le cose in maniera diversa. Non è facile, in fondo sono un maniaco del controllo, ma credo che in questo momento sia la cosa giusta da fare e ho grande fiducia in Giuliano.
La canzone su cui stiamo lavorando me la porto appresso da una quindicina d’anni. Ho suonato il riff delle strofe per cinque o sei anni, senza mai riuscire a metterci un testo né a metterci dopo un ritornello o qualsiasi cosa. Mi ha seguito in tutte le case in cui ho vissuto e in tutte le città, è stata suonata su almeno tre pianoforti. A un certo punto è venuto fuori un ritornello e ancora mesi dopo un ponte (special, bridge, variazione, chiamatelo come volete) e infine il testo si è composto quasi da solo. E adesso devo aggiungere una strofa, dopo tutti questi anni. La settimana scorsa mi si è presentato un verso, ma ne mancava un altro. Magrelli ha fatto il resto, in metropolitana, tra Sant’Ambrogio e Cadorna, per la precisione.
In studio, mentre riascoltiamo il brano e Giuliano sistema un po’ di cose nel mix, tiro fuori il mio quaderno e butto giù il famoso secondo verso. Riempio due pagine con tutte le combinazioni possibili, arrivo a due versioni differenti. Le canto entrambe, quando arriva il momento di mettermi davanti al microfono, e dopo scegliamo insieme la migliore – siamo d’accordo, è piuttosto evidente.
Finito in studio ho un appuntamento di lavoro con un vecchio amico, ci beviamo una birra, mi affida questa cosa che deve affidarmi, poi mi dirigo verso il Ducale per andare a vedere il film di Tornatore su Morricone. Ho sempre avuto un rapporto speciale con la sua musica, non so perché ma riesce sempre ad arrivare al luogo più indifeso di me, può ridurmi in lacrime per la bellezza struggente dei suoi grappoli di note.
Mentre scrivo ricevo messaggi su una raccolta di beni di prima necessità organizzata dal prete ucraino di una chiesa di via Meda. Bende, garze sterili, emostatico, cerotti con antidolorifici, antidolorifici forti, liquidi coagulanti, antibiotici, calmanti, defibrillatore portatile, cibo di veloce preparazione (tonno in scatola, insaccati), indumenti per bambini (cappellini, sciarpe, giubbotti), indumenti per soldati (di colore verde militare, marrone, nero), coperte, lenzuola, pannolini per bimbi.
Questo mi fa molto più effetto delle immagini degli scontri, dei civili armati, delle case sventrate e dei mezzi corazzati in fiamme. Dei cadaveri lungo le strade, carbonizzati. Indumenti per i soldati. Forse nel mio armadio c’è una maglietta del colore adatto per morirvi dentro? Combattendo?
Morricone. Il film dura più di due ore e quaranta ma giunti alla fine non si ha l’impressione che sia trascorso così tanto tempo, nonostante la mascherina a coprire le vie aeree. È un ritratto privato, che scava a fondo nella sua carriera – il padre “trombista”, come diceva lui, che lo inizia alla musica (“Io porto il pane in tavola in questa casa con la tromba e tu un giorno farai lo stesso”), gli studi, il periodo alla Rca come arrangiatore, poi l’esordio nel mondo del cinema e l’affermazione definitiva –, indagando il dissidio interiore che lo ha costretto per buona parte della vita a sentirsi un “traditore”, un compositore contemporaneo che aveva voltato le spalle alla “musica pura” per lavorare nel cinema. Si commuove spesso Morricone, anche mentre racconta episodi apparentemente secondari o banali. Io alla fine mi commuovo solo quando riceve finalmente l’Oscar tanto atteso e la prima cosa che dice è che metà di quel premio è della moglie Maria. Poi solleva il braccio che impugna la statuetta nella sua direzione e il teatro viene giù – e un po’ anche io, crollo del tutto, a dir la verità.
Stamattina ho visto un breve video-reportage del New York Times. L’inviato a Kiev intervistava i civili in coda per ricevere un fucile automatico e l’addestramento di base alla guerriglia urbana. Tra le tante voci, un ragazzo che si esprimeva in un inglese perfetto. Sguardo inquieto, capelli arruffati da una notte che non possiamo nemmeno immaginare:
I wouldn't really want to participate in anything like this but I have no choice, this is my home.
E una donna sulla quarantina, frangetta nera, occhi chiari, belli e preoccupati:
Sono sana, sono in forze. È mia responsabilità farlo.
Insomma, questa immagine di Morricone che si commuove molto spesso mi ha fatto pensare alla fonte della sua ispirazione, al luogo segreto e intimo da dove sgorgavano le melodie, le intuizioni, gli spunti. A un animo sempre suscettibile di essere stimolato, le lacrime solo un’espressione corporea di quello stato. E allora mi è tornata alla mente una poesia sempre della nuova raccolta di Magrelli, che dice:
Mentre stendevo i panni
ho scritto tre poesie:
depressione, tristezza, chi lo sa.
Trasudo commozione come fossi una spugna.
Basta strizzarla un po’
e gocciolano versi.[1]
Ovviamente ho steso anch’io i panni, poco fa – domani torna Giorgina. Nel bucato c’erano due camicie uguali, di jeans. Una mia e una sua. Le ho appese l’una accanto all’altra, su due grucce, una piccola, l’altra grande. E sono stato lì a fissarle per un attimo. La guerra dentro e fuori, l’umanità da conservare, le lacrime, la musica, la gentilezza e la gioia, la spianata immobile di un lago visto dall’alto, il mondo ridotto a un plastico per trenini, la città sullo sfondo con le sue torri, il cuore che batte all’impazzata e i tratti del viso che cercano di nasconderlo. Una mano da stringere. Siamo vivi, ecco tutto.
Su Lanegan
Isobel Campbell sul Guardian
Nick Cave nei suoi The Red Hand Files
[1] Valerio Magrelli, Exfanzia, Einaudi, p. 74.