Giocare col fuoco #14
L’altra sera ho fatto un sogno.
Avevo un appuntamento dall’avvocato con la madre di mia figlia. L’avvocato era una figura terza, non era né il mio né il suo, ma aveva le fattezze della mia psicoterapeuta. Nel sogno non era chiaro di cosa dovessimo parlare, eppure appena la madre di mia figlia iniziava a parlare io scoppiavo a piangere, per la rabbia e la frustrazione. La sensazione era che stesse dicendo cose di cui non ero a conoscenza, e che facevano molto male, oppure che stesse sovvertendo completamente la realtà che mi era dato di conoscere. A un certo punto l’avvocato allargava le braccia, come a dire: “Be’, ma se le cose stanno così,” o forse “Be’, signora, insomma, forse questo non è proprio il modo…” Fatto sta che quando uscivo ero annichilito, addolorato, sconvolto. Piangevo come un vitellino.
Cambio di scena.
Sono con mia madre e mia figlia, che però è un maschio, un bambino che ha qualche anno più di lei, ma io ho la chiara percezione che sia mia figlia, solo che è maschio. È inverno, ci aggiriamo nei dintorni della mia nuova casa. Un piccolo paese, paesaggio innevato, campi tutto intorno. Nel sogno sono molto contento di questa mia nuova casa. A un certo punto arriviamo a uno specchio d’acqua, credo un bacino artificiale, dato che è perfettamente rettangolare, con gli angoli arrotondati e le sponde ricoperte di una neve soffice e candida. Tutti e tre indossiamo giubbotti da neve e vestiti pesanti. A un certo punto, mentre sono girato di spalle, sento mia madre che esclama “Bravo, nuota! Nuota!”
Mi volto di scatto e vedo mio figlio immobile a faccia in giù nel bacino. Mi precipito nell’acqua e lo tiro fuori. È esanime, cianotico, non respira. Urlo a mia madre di chiamare un’ambulanza. Io tento di rianimarlo, lo stringo forte a me, poggio le labbra sulle sue e soffio, soffio, soffio. Mia madre mi dice che l’ambulanza arriverà dall’altra parte del paese. Io so che il paese è come tagliato in due da una specie di barriera architettonica molto difficile da superare. Un attimo dopo corro per le vie dell’abitato con in braccio mio figlio che non respira, in cerca di un accesso verso l’altro lato del paese. Entro ed esco in negozi, gallerie commerciali, atrii di alberghi. Poi finalmente azzecco il passaggio giusto e sbuco su un piazzale. L’ambulanza è lì in attesa. Consegno mio figlio ai paramedici. È salvo. Siamo salvi.
Mi sveglio.
Sono nel mio letto. Giorgina dorme nel suo lettino, a un metro dal mio. È ancora una femmina. E io sono ancora un uomo, più o meno. Sono ancora suo padre. Guardo il soffitto, dalla finestra coperta dalla tenda gialla filtra il primo chiarore dell’alba, che si diffonde sul cielo sopra di noi, sopra i condomini popolari dietro casa mia, sui nostri cuori e sulle nostre ossa. Sulle nostre paure e sulle gioie che attendiamo. Che ci ostiniamo ad attendere. All’improvviso il mio cervello mi rimanda in sequenza tutto il sogno, immagine dopo immagine, sensazione dopo sensazione. Guardo di nuovo verso il lettino di g. Dorme tranquilla, con un piede che sbuca fuori dalla coperta, come fa da quando era piccolissima. Quel piedino adorato, lì, in mezzo al nulla. Le labbra socchiuse, un braccio sotto il cuscino. Come me. Già, come me. Faccio un respiro e mi alzo. Vado nell’altra stanza di cui è fatta questa casa. Constato che il tabacco è finito, me lo ricordavo. Guardo l’ora. Troppo tardi per tornare a dormire, troppo presto per alzarmi. Mi siedo sul divano, le gambe incrociate. Le immagini del sogno non mi lasciano. Mio figlio a faccia in giù nell’acqua, immobile. Mia madre che urla “Bravo, bravo! Nuota!” La corsa fino all’ambulanza.
Cerco di calmarmi.
Fisso la mia libreria. Poi volto la testa e getto lo sguardo verso la finestra della zona giorno, che dà a est. Oltre i palazzi, il chiarore dell’alba è una linea bianca che taglia il blu. Che taglia questa paura. Resto a fissarla per qualche istante. Questa notte passerà. Come tante altre sono passate. Questa notte passerà, o la faremo passare. Prendo un altro respiro profondo. Mi alzo e torno in camera. Passo da g. Dorme tranquilla. Le infilo il piedino ribelle sotto le coperte, facendo attenzione a non svegliarla.
Torno a letto.
Chiudo gli occhi.