UN GUANTO PRECIPITÒ DA UNA MANO DESIDERATA
Parte prima
Milano, la nevicata del 1985. Quel pomeriggio, presi mio fratello Ale, che all’epoca aveva appena compiuto sei anni mentre io andavo per gli undici, e lo portai a quello che oggi è il parco Baravalle, mentre allora era un terrain vague, una terra desolata di siringhe, qualche pallone e poco altro. Ci aggirammo per quei meravigliosi cumuli candidi di neve soffice come assetati nel deserto, cuori strizzati da tutto quello che mancava. Ale indossava un tenerissimo passamontagna di lana blu a maglia grossa, io degli imbarazzanti stivaloni di gomma rossa che mi aveva comprato mia madre: all’interno erano foderati di una trama di cotone bianco, che ahimè alla luce, insieme al leggerissimo strato di plastica rossa, creavano una tinta rosa pallido che proprio non mi andava giù. Avevo protestato lungamente, ma difficile è la sorte dei bambini che non vengono trattati come esseri umani ma solo come… bambini.
Stringevo la mano di Ale mentre a passo svelto ci dirigevamo verso quel paradiso immaginario della fanciullezza che non avevamo. Giunti lì, ci rotolammo nella neve, ci tuffammo, facemmo salti, capriole e qualsiasi altra cosa possa venire in mente a due bambini che trovano finalmente un mondo di felicità, un mondo per qualche ora tutto loro, retto da regole imposte da loro, necessitato dalle loro necessità, gioiosa dello loro stessa gioia e luminoso di una luce che si sperava prima o poi sarebbe arrivata o che comunque non sarebbe svanita.
Dopo lunghe ore di instancabile eccitazione, decisi che era ora di rientrare, che nostra madre sarebbe rincasata dal lavoro, e ci accorgemmo che Alessandro aveva perso un guantino. Se la memoria non mi inganna, anche se è molto probabile, Ale aveva un paio di guantini rossi di lana che pareva elasticizzata, che sui palmi e sul dorso avevano un disegno geometrico nero di rombi o qualcosa di simile. Quando ci accorgemmo che un guantino era andato perduto, corremmo indietro a perdifiato, in cerca del guantino e sicuramente anche di qualcos’altro. Ma non trovammo né l’uno né l’altro. Non saprei dire perché, o forse sì ma potrei non aver voglia di farlo, ma quel guantino perduto, rimasto solo nella neve, al freddo che calava quando finivano i giochi, mi aveva messo addosso una tristezza indicibile, una nostalgia che chiaramente doveva essere già mia ma che trovò in quell’aggeggino di lana rossa e nera un ottimo simbolo per manifestarsi. Anni dopo, ai tempi dell’università, scrissi anche una poesia, che non ritrovo più nei miei archivi, purtroppo perché era bellissima, di cui ricordo soltanto la chiusa:
e tu tra le tigri
in cerca del tuo guanto.
Parte seconda
Capodanno a Parigi con Gaia, che anni dopo sarebbe diventata mia moglie. Un pomeriggio andiamo al Louvre. Rimaniamo senza fiato quando salendo uno scalone di marmo ci imbattiamo prima nell’Amore e Psiche di Canova e poi nella Nike di Samotracia, così, uno dopo l’altro, un uno-due improvviso e imprevisto da toglierti il fiato e farti stramazzare al suolo davanti alla materializzazione di quello che in maniera deficitaria, che il linguaggio non arriva fin lì, definiamo bellezza. (Non so se nel frattempo hanno cambiato l’allestimento, ma all’epoca davvero prendevi questo scalone di marmo e agli ammezzati trovavi prima uno e poi l’altra.) Comunque, terminiamo la nostra visita e quando siamo fuori Gaia si accorge di aver perso un guanto. Io ero in un periodo di cinismo e depressione, così mi oppongo alla sua proposta di tornare indietro e recuperare quel benedetto guanto – pensavo che ciò che era perso era perso, kaputt, andato, finito, da dimenticare. Ma Gaia che non difettava di caparbietà e di una pervicace volontà di opporsi alla perdita, all’abbandono, alla fine delle cose, a mia insaputa la sera stessa aveva contattato l’ufficio Oggetti Smarriti del Louvre e il mattino dopo era passata a recuperare il guanto. Dio quanto mi sono sentito una merda. Avevo perso un’occasione. Un’occasione per credere. Un’occasione per provarci. Era solo un guanto, e allo stesso tempo no, non era solo un guanto. Forse non volevo più essere quel ragazzino che cercava nelle neve e tra le tigri il guanto perduto del fratello minore. Oppure ero solo condannato a rivivere quell’esperienza, senza alcuna speranza di poter cambiare davvero il corso delle cose. Chissà.
Aggiungo anche che quella vacanzina rimase memorabile per due motivi: il primo, l’amica che ci aveva prestato la casa al Marais, in rue Vieille du Temple, aveva un coniglio. Coniglio che il mattino della nostra partenza sembrava scomparso. Dopo averlo cercato in tutto il palazzo e in tutto il fottuto e meraviglioso quartiere, lo trovammo infine appollaiato su una sedia infilata sotto il tavolo del salotto, che era coperto da una tovaglia così ampia da nascondere la bestiola alla nostra vista. Il secondo: giunti in Gallia con la Skoda acquistata usata dal caro amico Paolo, la vettura era rimasta inutilizzata per tutto il tempo della vacanza. Se non che, quell’anno nevicò e al momento della partenza ovviamente l’avviamento singhiozzò. Così andai da un meccanico poco distante, che in tono asciutto mi spiegò la faccenda – “C’est la neige, le froid, Monsieur” – e dopo aver fatto ripartire la macchina si rifiutò di tenerla in carica per un po’, consigliandomi, laconico: “Roulez, Monsieur. Roulez.” Feci quello che mi disse e guidai. Guidai per i primi quattrocento chilometri con l’angoscia che a causa di una mia disattenzione il motore potesse spegnersi e abbandonarci in mezzo al nulla della campagna francese, cosa che ovviamente non accadde (“Most things I worry about, they never happen, anyway” canta Tom Petty in Crawling Back to You, una delle mie preferite – La maggior parte delle cose per le quali mi preoccupo, comunque non succedono).
Terza parte
Vado a prendere Giorgina a scuola, alle quattro come ogni lunedì che c’è la lezione di danza, e oggi è l’ultima per quest’anno. Eravamo d’accordo che se non avesse piovuto sarei andato a prenderla con la mia bici munita di seggiolino (due splendidi regali), e ovviamente appena mi vede mi chiede subito come sono venuto. Cerco di contenere la sua delusione, le spiego che ha piovuto e minaccia di farlo di nuovo e ci dirigiamo verso la fermata del tram. Da quando ho montato il seggiolino sulla bici non vuole più saperne di prendere anche la sua per andare a scuola: si piazza lì beata dietro di me e si gode la pedalata fino a scuola, con un sorrisino stampato in faccia che non vi dico. Abbiamo anche inventato una canzoncina apposita, che cantiamo insieme mentre (io) pedalo verso la Brunacci:
Com’ bello andare in bici / senza pedalar / senza faticar /
Com’è bello andare a scuola / senza pedalar / senza faticar.
Comunque, dopo la lezione e i saluti strappalacrime con la maestra e le compagne di corso, ci fermiamo un po’ al Parco delle Basiliche, poi prendiamo il tram verso casa. Passiamo dal super per prendere un paio di cose per la cena, dopodiché Giorgia mi chiede di fare un salto all’enorme venditutto al piano superiore, una catena cinese (forse, in ogni caso tutti gli addetti lo sono) che ha tra le altre cose un fornitissimo reparto cancelleria dove ci riforniamo dei materiali per i nostri lavoretti. “Papi, facciamo un salto al piano di sopra per vedere se c’è qualche novità?” Acconsento, come si fa a restare col dubbio? Facciamo un giro, soppesiamo diversi articoli, acquistiamo un orsetto morbidoso antistress arancione con lucina interna e ci incamminiamo verso casa. “Papi, oggi non fa troppo caldo per il risotto giallo, vero?” mi aveva chiesto quando eravamo ancora in tram. Qualche giorno prima mi ero opposto alla sua richiesta perché faceva troppo caldo per mettersi a preparare il risotto. Ma la ragazza è molto lucida, quindi ha approfittato subito del cielo coperto di oggi per riavanzare la sua richiesta. Quindi torniamo a casa e mentre mi accingo a mettermi ai fornelli si mette a urlare, disperata: “Papi, ho perso il mio braccialetto!” Il braccialetto che la (sempre sia lodata) rappresentante di classe aveva realizzato a mano per ogni remigino (i remigini, ho scoperto nelle ultime settimane, sono i bambini che lasciano la scuola dell’infanzia per accedere dopo l’estate alle elementari). Quindi un oggettino preziosissimo. Dopo averlo cercato vanamente in tutta la casa, mi chiede il permesso di andare a cercarlo da sola sulle scale del palazzo. Quando torna a mani vuote, capisco che resta una sola cosa da fare: le dico che proviamo a rifare il percorso dal super a casa nella speranza di ritrovarlo. “Ok Papi” mi risponde subito.
Poco dopo siamo in strada e ripercorriamo i nostri passi. Spiego a Giorgina che non è detto che lo si ritrovi, che il massimo che possiamo fare è provarci, e lo stiamo facendo. Quindi non perdiamoci d’animo e stiamo a vedere. Arriviamo fino al super ma niente. Entriamo, spiego l’accaduto al capo della security, che è ormai diventato nostro amico, e mi dice di fare un giro tra le corsie. Nulla di fatto. Si mette male. Dopo aver varcato la soglia dell’uscita senza acquisti, saliamo al piano di sopra in un estremo e quasi disperato tentativo. Ci aggiriamo tra gli scaffali, anche qui rifacendo il percorso che avevamo fatto poco prima, fino a quando non ci imbattiamo in un’inserviente che sta pulendo i pavimenti con un enorme scopettone. E… wow, cosa vediamo lì tra le setole nere? Il braccialetto di Giorgina! Gesù che tuffo al cuore. Lo recupero al volo, G mi salta al collo, a me viene da piangere e da ridere insieme. Gli do una pulita con le mani e glielo riconsegno. Lei se lo infila al polso e mentre prendiamo la scala mobile mi dice: “Papi, andiamo a dirlo ai nostri amici”. I nostri amici sono il capo della security e le cassiere che si erano dimostrate molto partecipi. Quindi sfiliamo trionfanti davanti alle casse esclamando che lo abbiamo trovato. Le cassiere battono le mani, il capo della security sorride e io rischio di commuovermi di nuovo.
Usciamo, il sole sta tramontando dietro i palazzi. Giorgina infila la mano nella mia e mi dice: “Papi, ma adesso che abbiamo ritrovato il braccialetto, me lo fai lo stesso il risotto anche se è un po’ tardi?”