Care e cari,
innanzitutto gli aggiornamenti sui prossimi eventi, con qualche novità.
Il 14/10 saremo live al Black Inside di Lonate Ceppino (VA) con tutta la banda. Informazioni su biglietti e orari le trovate qui: https://www.facebook.com/events/829088952228789
Il 19/10 invece inizia una nuova avventura. A partire da questa terza stagione, una volta al mese Giocare col fuoco diventa anche uno spettacolo dal vivo, che verrà registrato e trasmesso la prima domenica utile successiva. Sarà una normale puntata di Giocare col fuoco, con letture, racconti e canzoni, con l’unica differenza che le canzoni ve le suonerò io insieme a Marco Confalonieri, pianista di grande talento, che si occuperà anche dell’accompagnamento durante le letture. Queste puntate speciali avranno luogo sempre da Germi, qui a Milano, ma se qualcuno volesse ospitare una puntata anche fuori città non ha che da scrivermi. I biglietti per giovedì 19 ottobre si trovano qui (consiglio di prenderli che Germi è piccolino e si riempie subito):
https://dice.fm/event/awqbv-fabrizio-coppola-giocare-col-fuoco-live-19th-oct-germi-luogo-di-contaminazione-milano-tickets?lng=it
Il 26/10 sarò invece a Como, invitato dal giornalista Maurizio Pratelli, all’interno della rassegna Strade Blu (dal titolo dello splendido romanzo di William Least Heat-Moon): concerto acustico con chiacchierata e degustazione dei vini di una cantina diversa per ogni serata, presso gli spazi di Nerolidio Music Farm.
il 9/11 torno invece in un posto a me molto caro, il Tambourine di Seregno, dove ho suonato innumerevoli volte negli ultimi vent’anni. Farò il mio concerto/reading in solo tratto da Heartland. Tutte le info qui:
https://www.facebook.com/events/791632899429795
E poi il 17/11 chiudiamo gli appuntamenti fissati per ora sempre con il mio concerto/reading tratto da Heartland alla Biblioteca di Rozzano, all’interno degli eventi organizzati per BookCity. Lo spettacolo si terrà alle 18, ingresso gratuito fino ad esaurimento posti.
Qualche settimana fa ho scritto questa cosa qui sotto, che condivido volentieri anche con voi. Si parla di generazioni, cucina, politica, di ciò che resta.
Ci sono molte cose che mi sono rimaste di mia nonna. Flora Santamaria, si chiamava. Una forcina per capelli in osso di tartaruga, finita nella mia tasca la mattina del funerale dal suo portagioie di cristallo adagiato su un centrino di pizzo sul comò con specchiera nella sua camera da letto. L’ho tenuta nella custodia della mia chitarra per anni, mi seguiva in giro nei miei concerti. Adesso la forcina è in una busta da lettera a pochi centimetri da me, nel secondo cassetto della scrivania.
Oltre a questo, l’abitudine di scolare gli spaghetti con la forchetta, direttamente dalla pentola, per non sprecare la preziosa acqua bollente ricca di amido così utile per sgrassare piatti e tegami. Lo faccio sempre – “Papi, ma come fai?” mi chiede Giorgia, quando mi vede farlo, divertita e stupita, giudicando impossibile l’operazione. E invece ci si riesce, servono esercizio, cocciutaggine, fiducia, speranza. I suoi modi di dire sbilenchi, il suo italiano stentato ma così vero, sostanzioso, attaccato alle cose. Il Subbuteo era il Subbuglio – fantastico, no? Ed era vero, quando giocavo a Subbuteo con mio fratello maggiore creavamo subbuglio, litigavamo, i giocatori sparsi ovunque nella stanza, le urla, le risse. I plum cake erano i trum cake, il trio tedesco dell’Inter della mia gioventù – Matthaus, Brehme, Klinsmann – diventava per lei Mattiùss, Klinshm e Brèm. La nonna era una grandissima tifosa dell’Inter, e vai a capire perché. Per anni a Natale le abbiamo regalato il calendario della squadra, l’unico regalo che non commentava storpiando la bocca, toccandosi il naso quasi a voler coprire le parole: “Nun me piasc.”
Ma oltre a queste piccolezze, che ricordo con affetto infinito, Flora mi ha lasciato una via d’accesso a un mondo arcaico, carico di rituali e di simbolismi. E non perché fosse una specie di fattucchiera o una persona dotata di elevata spiritualità o credenze particolari. No, perché osservandola intenta alle sue cose si capiva che la vita non è altro che una danza, un balletto, un lunghissimo rituale in cui meno importanza si dà alle cose minuscole e infinitesimali e più si è scontenti, insoddisfatti, ci si ammala di una strana nostalgia per qualcosa che non sappiamo neanche noi dire cos’è e che non abbiamo mai avuto.
Ero il suo preferito tra noi tre figli di sua figlia. Non ho ancora capito perché. Ma la vita è ingiusta e giusta al tempo stesso, così, a caso. Ho preso un sacco di bastonate, che fanno ancora male, e ho avuto anche molti doni. Brillano ancora tutti. Tra questi, l’amore incondizionato di mia nonna. E l’amore incondizionato, sulla faccia della Terra, non è qualcosa che capiti a chiunque. Va anche detto che tale era l’amore che riversava su noi nipoti che i miei fratelli di certo non possono dire di averne ricevuto poco, anche se sì, è vero, in qualche modo ne hanno ricevuto meno, o perlomeno lo hanno ricevuto in una forma leggermente diversa. Guai a dirglielo. Lo facevano tutti. Si infuriava. Poi alla fine sorrideva sempre. Lo sapeva anche lei. La storia del mondo. Nonne e nonni che espiano le proprie colpe verso i figli riscoprendosi finalmente in grado di dare amore ai nipoti. La seconda possibilità che spazza via i sensi di colpi e i dolori causati e subiti. L’ho capito fino in fondo quest’estate, me lo ha confessato una donna che conoscevo da meno di ventiquattro ore. Mi ha detto apertamente che la sua nipotina è la sua possibilità di riscatto, la sua occasione di curare vecchie ferite, di accettare di non essere stata una madre all’altezza. Una liberazione, proprio queste parole mi ha detto nel suo francese del sud, sotto un cielo di un azzurro impossibile spazzato da un vento terso che faceva sbattere la tela da vela sistemata a copertura del cortile quadrato interno alla sua casa. Azillanet, meno di mille anime e una luce che non ti scordi più.
Io amo cucinare perché Flora cucinava benissimo. Ha fatto la cuoca per quasi tutta la vita e possedeva una maestria nell’abbinare ingredienti, dosare cotture, preparare due o tre pietanze insieme che ancora oggi mi lascia esterrefatto. Una specie di magia e insieme un atto d’amore – un atto d’amore per se stessa, per le persone che stava cibando, per ogni singolo pesce, ortaggio, verdura e condimento che finiva in pentola. In breve, la sua cucina rappresentava e ai miei occhi rappresenta ancora oggi l’amore per la vita. Un modo per onorarla. Di nuovo, un rituale, una specie di messa, una cerimonia carica di simbolismi, di non detti, l’espressione di una volontà e di una necessità precedenti al linguaggio, al nostro riconoscerci mutualmente come esseri umani, come Sapiens sapiens.
Ho sempre cucinato per le persone che ho amato, per gli amici, ma non per tutti indiscriminatamente – così come in casa mia sono poche le persone che entrano. Sono fatto così. E avendo sangue al cento per cento campano, ed essendo sempre stato circondato fin dalla tenera età da profumi di cucina tra i più deliziosi, mettermi ai fornelli mi è sempre sembrato naturale. E allo stesso modo sono sempre stato lontano dalle abbuffate, ho sviluppato negli anni un rapporto libero e sano con il cibo, che si traduce in un atteggiamento che spesso fa infuriare la gente: se restano tre maccheroni e sono sazio, non li mangio neanche se viene Belzebù a costringermi. Ma allo stesso modo non butto il cibo – lo conservo, spesso quello che avanza, poco o tanto, lo mangio il giorno seguente, altre volte mi duole ammettere che finisce ugualmente nella spazzatura, magari solo perché me ne dimentico. Quando era ancora in vita, spesso chiamavo mia nonna prima di andare a fare la spesa per chiederle ingredienti e procedimento di una sua ricetta che non avevo mai provato. Era anche un modo forse per farla sentire utile, per farle capire che in un certo senso volevo muovermi sui suoi passi. Poi quando è morta il destinatario di queste telefonate è diventata mia madre, e magari anche per gli stessi motivi, oltre che per le abilità culinarie.
Quando sono diventato padre questa cosa della cucina ha preso tutta un’altra valenza, com’è comprensibile. E oltre a cucinare per mia figlia, sin da quando era piccola l’ho coinvolta nel grande gioco della cucina, permettendole di combinare qualsiasi tipo di disastro e di sentirsi libera, senza cioè un adulto accanto a dirle: “No, non si fa così, No lo faccio io, Dai a me che non sei capace.” Così non si insegna proprio un bel nulla.
Stasera per la seconda volta nella nostra vita abbiamo fatto insieme la parmigiana di melanzane, una delle regine della cucina salernitana, piatto forte (come qualsiasi altra cosa) di mia nonna ed elemento costante anche delle nostre domeniche milanesi per mano di mia madre. Giorgia aveva il compito, come quando facciamo la cotoletta, di passare le fette di melanzana prima nella farina (di riso, è celiaca) e poi nell’uovo sbattuto, dopodiché io le prendevo e le friggevo. In seguito ha affettato le mozzarelle, mangiandone circa il 28%, come d’abitudine, e infine abbiamo composto insieme gli strati della parmigiana aggiungendovi il sugo preparato in precedenza, prima di infornarla. Fatto questo, siamo andati a fare la doccia. E mentre eravamo lì che ci insaponavamo sotto il getto a temperatura variabile assicurato dalla caldaia recalcitrante del mio modesto bilocale in affitto, le ho chiesto: “Giorgina, ma tu hai capito perché io ci tengo così tanto a cucinare insieme e a insegnarti le ricette della nonna Flora?”
Lei mi ha rivolto uno sguardo incerto con un occhio solo, l’altro cautamente chiuso per evitare che lo shampoo si imbizzarrisse e le colasse oltre la palpebra. Al che ho proseguito.
“Perché prima la parmigiana la faceva lei. Poi quando è morta, la parmigiana ha continuato a farla la nonna Gina. Poi quando anche lei morirà, speriamo tra tantissimi anni, sarò io a continuare a farla. E un giorno, quando anche papà non ci sarà più, toccherà a te insegnare la ricetta ai tuoi figli, se ne vorrai avere, o a una persona a cui vuoi bene. E così via. All’infinito. Perché finché ci sarà qualcuno, anche tra mille e mille anni, a cucinare la parmigiana come la faceva la nonna Flora, allora vorrà dire che tutto andrà bene.”
Alla fine, la parmigiana era più che buona, domani sarà ancora migliore. Giorgia mi ha anche detto: “Papà, dovevi aprire un ristorante invece di fare il cantante.” Abbiamo riso, io più di lei mi sa. I bambini sono in grado di scuotere il tuo ateismo e farti pensare per qualche istante che forse in fin dei conti un Dio c’è. Poi però pensi che in un certo punto della storia gli dèi eravamo noi, solo che lo abbiamo dimenticato. Adesso dorme nel suo lettino oltre la parete. Quel che resta del corpo di Flora Santamaria giace a un migliaio di chilometri da qui. E io cerco di mantenere in vita il suo balletto, i suoi riti, i suoi simboli, la sua magia come un Neanderthal contemporaneo che porta il fuoco di caverna in caverna per illuminare questa notte senza vita, senza faccia, senza memoria, senza storia, senza cultura, senza speranza se non nel consumo, nei soldi, nell’avidità, nella sopraffazione, nel disconoscimento della reciproca umanità. Nel cibo scadente pagato come oro, cucinato da addetti sottopagati e consegnato nelle vostre case da schiavi in bicicletta sotto il nubifragio.
Vi lascio con un tentativo di poesia, prodotto durante l’ultimo caldissimo agosto in cui stavo cercando di riscrivere una cosa ma il mio cervello si rifiutava e mi sputava fuori a mo’ di beffa poesiole minime come questa che vi incollo qui sotto.
Il letto d’estate resta sfatto
e porta i segni del mio peso
o forse il calco dei miei sogni
nel carcere notturno
dei ricordi del giorno
opportunamente processati
dalla materia grigia
per renderli più aguzzi,
feroci come l’ultimo risveglio,
o sdentati come le sillabe dei poppanti
impastate di latte materno
– porta dell’inferno –
oscure e incomprensibili.
Anche per stavolta è tutto, ci si vede in giro se vorrete
f