Bir-Hakeim, Libia, maggio 1942. La Prima brigata dell’esercito della Francia Libera difende strenuamente le sue posizioni per due settimane, respingendo gli assalti delle truppe corazzate italo-tedesche, prima di essere costretta a ripiegare sulla linea difensiva britannica. Per commemorare il sacrificio di quegli uomini, nel 1949 il comune di Parigi decide di cambiare nome al Pont de Passy, che diventa il Pont de Bir-Hakeim.
È il 1° gennaio del 2025 e adesso su quel ponte una donna di colore con quattro bambini (i suoi figli, mi viene immediatamente da pensare) si sbracciano dal parapetto mentre noi ci passiamo sotto sul bateau-mouche. Poi la donna unisce le mani a formare un cuore e lo agita contro il cielo plumbeo che va scurendosi come a farlo pulsare. Dall’imbarcazione si alza una vera e propria ovazione. Tutti applaudono, salutano, urlano, alcuni ricambiano il gesto della donna (tra questi, lo scrivente). È in questo momento che il groviglio di sensazioni con cui lotto da ieri sembra sul punto di vincere, il groppo in gola che cerco di ricacciare in basso sale inesorabile verso l’alto. Mi si riempiono gli occhi di lacrime.
Penso al nostro mondo in guerra e a quanto – ed è incredibile – un semplice gesto possa ancora unire le persone, sconosciuti da tutto il mondo che per un istante applaudono e ricambiano il segno di un piccolo cuore pulsante fatto dalle mani di una totale estranea. Forse siamo tutti stanchi di guerra, violenza e sopraffazione – o forse sono solo io a pensare a queste cose. E poi al fatto che abbiamo optato per il giro in bateau-mouche dopo aver provato due volte a salire sulla Tour Eiffel, prima al mattino – troppa coda – e poi dopo pranzo, ma ormai l’ultimo piano, il sommet, era chiuso, annunciavano gli schermi digitali. Forse dovevamo proprio trovarci su questa barca in questo momento.
Ma c’è dell’altro. Penso a Paolo Benvegnù – un dolore inaspettato che mi ha raggiunto ventiquattro ore fa, cinque minuti prima di uscire di casa con mia figlia per andare a Linate a prendere il volo che ci avrebbe portati qui, una vacanza che sognavamo da tempo. Un messaggio della mia compagna, che stava raggiungendo Parigi dal nord della Francia: “Sto andando in stazione.” E poi, subito sotto: “È morto Paolo Benvegnù. Sono scioccata.” Rileggo due volte, inebetito. Apro Facebook, leggo. Oddio.
Vedere una città dall’acqua è come entrare nelle sue viscere, osservarla dal basso verso l’alto – e nel caso di una città meravigliosa come Parigi la sensazione di inferiorità e di stupore e di nullità al confronto di quelle pietre che ci precedono e che continueranno a rimanere al loro posto anche dopo la nostra scomparsa è ancora più profonda. Alzo la testa mentre passiamo sotto l’ennesimo ponte, le arcate così vicine che sembra quasi di poter sfiorare quei mattoni con una mano. Quasi. Mi chiedo che effetto possa fare tutta questa bellezza su una bambina di nove anni.
L’umanità di Paolo Benvegnù, secondo quanto mi è sembrato di intendere in questi anni attraverso il suo lavoro e quelle tutto sommato poche volte in cui ho avuto la possibilità di interagire con lui, deriva a mio modo di vedere dalla sua piena accettazione della condizione di essere umano. E non è una cosa banale, in quest’età di rimozione, di proiezione, di personalità immaginate e immaginarie. Lui bazzicava il bordo del precipizio, lo faceva di propria volontà. Il precipizio dell’umanità, quello in cui giacciono insieme il nostro orrore e la nostra meraviglia, la nostra fragilità e la nostra capacità di splendere, la nostra resa e la nostra resistenza, il nostro dolore e la nostra paura accanto alla gentilezza e all’istinto omicida, l’insulto e l’abbraccio, il padre e il figlio di nessun dio di questa nostra specie umana.
Il cielo è grigio, la giornata fredda. Come in un miracolo, le luci della città sembrano accendersi al nostro passaggio. Mia figlia intabarrata come se fossimo al Polo Nord si gode la mini crociera poggiata al parapetto accanto al suo sedile. Non parla, i suoi occhi vagano di tetto in tetto, di casa in casa, di lampione in lampione. Sara a un certo punto cede al freddo nonostante il sangue bretone e si rifugia al piano di sotto, al coperto, dove la raggiungiamo anche noi non molto dopo.
Non è facile parlare dei morti, forse non dovremmo neanche farlo. Eppure... Non posso dire di essere stato un amico di Benvegnù. Non ci siamo mai scambiati i numeri di telefono, ad esempio. Ma ogni volta che ci siamo visti, ho potuto godere della sua umanità, del suo modo semplice di ricordare una faccia e un nome, della sua gentilezza mai di circostanza. Nel 2004 ho aperto tre concerti del tour di Piccoli Fragilissimi Film, poi ci siamo rivisti altre volte in quello stesso anno, quando è passato dalle mie parti a suonare. Nient’altro da segnalare. Qualche sua parola sul mio lavoro, che mi tengo per me. Aveva suonato qualche mese fa poco lontano da casa mia. Concerto infrasettimanale, mia figlia era da me, avevo rinunciato, com’era giusto fare.
Qualche giorno dopo aver appreso della sua morte, pensando a quel modo di avvicinarsi al baratro, all’abisso dell’umanità di cui scrivevo sopra, mi ritorna in mente la scena di un film che devo aver visto secoli fa. Ancora la Seconda guerra mondiale, Roma occupata dai nazisti, una linea bianca tracciata sui sampietrini separa la Città del Vaticano dal resto della città. Al di qua della linea, un prete che vi passa sopra il piede più e più volte, fingendo di oltrepassarla solo per provocare i soldati del Reich appostati a pochi metri, pronti con i loro mitra. Non ricordo il titolo, chiamo un caro amico che lavora nel mondo del cinema – ironia della sorte, si chiama Benvegnù anche lui –, gli racconto la scena e gli chiedo se sa dirmi di che film si tratta. Mi risponde che purtroppo non gli viene in mente nulla. Il giorno dopo con una fortunata stringa di ricerca su Google risalgo all’opera: Lo scarlatto e il nero, una miniserie televisiva tratta da un racconto di J.P. Gallagher, una coproduzione italo-americana. Il protagonista, Gregory Peck, è un prete che sfida gli occupanti per aiutare la popolazione della città. Scopro anche che è stata trasmessa in prima serata dalla Rai in due serate, l’8 e il 15 maggio del 1983. Trovo addirittura il pdf della pagina degli spettacoli dell’Unità dell’8 maggio che contiene la programmazione televisiva – rivedere le pagine del giornale che leggeva mio padre è l’ennesima epifania di questa storia. Quattro giorni dopo la messa in onda avrei compiuto nove anni, ma il piccolo me di allora di sicuro non poteva neanche immaginare in quali circostanze e quanti anni dopo quel film gli sarebbe tornato in mente.
“Io dopo due giorni ho deciso di fare finta che non sia mai successo.”
È il mio amico Alex che parla. Abbiamo appena lasciato le nostre figlie a scuola e ci beviamo il solito caffè dopo l’accompagnamento – abbiamo formato un gruppetto di papà: tra i più assidui, oltre a me, ci sono lui, che fa l’ufficio stampa musicale, un ingegnere del suono e un organizzatore di eventi (sì lo so, sembra una barzelletta ma non lo è).
“Tutto in linea,” gli dico, “la rimozione è il primo stadio dell’elaborazione del lutto.”
La verità è che siamo terrorizzati dalla morte, com’è giusto che sia. E io la odio tutta questa retorica, tutto questo parlare di stelle che brillano in cielo, di cose che resteranno sempre con noi, questo continuo tentativo di evitare la verità nuda e cruda. Questi calembour per aggirare le parole giuste. E so anche che l’amore di cui ha bisogno un artista è enormemente più grande di tutto l’amore concepibile e manifestabile. È in quel punto esatto che risiede la sua essenza. Così come so che tutti i nostri grazie non servono a niente. Non servivano prima e non serviranno adesso. E so che da qualche giorno abbiamo un dolore in più, un buco nello stomaco in più, e un appiglio in meno cui aggrapparci quando saremo di nuovo sul punto di soccombere davanti alla nostra fragilità, alla nostra incapacità di vivere, di sopportare il peso dell’esistenza e quando rischieremo di perdere di vista la luce che eppure c’è. Un appiglio che ci mancherà la prossima volta che ci sentiremo soli. La prossima volta che dovremo arrenderci ancora e accettare di essere soltanto ciò che siamo. Ciò che possiamo essere.
Io so che le persone quando muoiono lasciano dietro di sé una scia, come il riverbero di ciò che hanno fatto in vita. Alcune se ne vanno con le mani sporche di sangue, e sulla terra che hanno calpestato non cresce letteralmente più l’erba. Altre tracciano strade con le loro idee e con le loro opere e con i loro modi. Ognuno di noi può scegliere cosa fare, dove poggiare lo sguardo e quale scia seguire. Quali strade abbandonare, nella speranza che la vegetazione le ricopra e il tempo le cancelli per sempre, e quali battere per tenerle in vita.
Ma io lo so che è solo un sogno.