Giocare col fuoco #4
Oggi una puntata particolare di Giocare col fuoco. Una sola poesia in forma di racconto, perché è molto lunga e perché è giusto che se ne stia da sola, che riceva lo spazio che merita. Ci ho messo diversi anni a scriverla, tornandoci su più volte per aggiungere o togliere particolari. Penso che giunti in fondo capirete il perché.
Buona lettura, e grazie per le risposte e i commenti che mi inviate ogni volta, li apprezzo molto. In fondo troverete il link al canale Telegram di Giocare col fuoco, dove di quando in quando vi leggo alcune di queste poesie.
State bene
f
Pompini
Il mio amico del liceo
aveva la fronte alta e la mascella squadrata
dei protagonisti delle serie tv americane.
Aveva due occhi blu, del colore di chi
era cresciuto guardando il mare mattino, pomeriggio e sera.
Aveva un fisico invidiabile e un gran successo
tra le ragazzine della scuola –
sapeva illuderle tutte
e non amarne nessuna.
La palestra della scuola aveva una colonna portante
nel bel mezzo, e così durante l’ora di educazione fisica maschile –
ancora classi separate per quella materia all’epoca –
noi ci correvamo tutto intorno,
scimmie urlanti al galoppo –
non eravamo molto altro all’epoca (e forse neanche adesso).
Passavamo gran parte del nostro tempo a parlare di pompini.
Ovviamente nessuno di noi conosceva ancora approfonditamente la materia,
se mai si può dire di conoscerla – riuscire a esprimere con chiarezza l’effetto che fa, voglio dire.
Mi ricordo un’estate, quando lo raggiunsi
nella casa al mare dei suoi.
Un giorno, a Bogliasco, il padre ci portò in sala giochi,
e comprò i gettoni per lui e per me.
“Carlo” disse “questi devi dividerli con Izzio. Intesi?”
Carlo fece di sì con la testa,
ma quando, dopo aver giocato per una decina di minuti,
andai da lui a chiedergli i restanti gettoni che mi spettavano,
senza staccare gli occhi dalla partita di Pac-Man mi disse:
“Non te li do. In fin dei conti li ha pagati mio padre”.
Gli voglio ancora un bene dell’anima.
*
Sua madre morì di tumore dopo una lunga agonia –
una parola che non riesce a significare nulla, me ne rendo conto.
Per un certo periodo non si parlò più di pompini,
l’argomento fu sostituito dalla metastasi,
e dalla velocità alla quale le cellule tumorali
attaccavano le cellule sane.
Il giorno del funerale il cielo era limpido
e splendeva un gran sole.
Andai in chiesa e mi tenni in disparte.
Piansi per tutto il tempo.
Poi, quando fu il momento di seguire la bara per la sepoltura,
lo raggiunsi per abbracciarlo e per dirgli che
non sarei andato al cimitero.
Mi fissò per qualche istante, senza dire niente.
Poi la carovana si mosse – i parenti a piedi dietro l’auto con la bara.
Il mio amico si girò verso di me,
io ero in piedi sul sagrato della chiesa.
Vidi il suo braccio destro alzarsi
e stagliarsi a mano aperta contro il blu del cielo,
gli occhi bloccati nei miei.
Il suo braccio alzato sembrava opporsi alla corrente quasi immobile eppure invincibile
di quegli esseri scuri che procedevano lenti dietro la bara,
come un tronco che per un istante riesce ad aggrapparsi a un sasso sul letto del fiume
prima che l’acqua lo vinca e riesca finalmente a trascinarlo con sé.
Da quel momento
mi sono preso il compito di non scordare mai quell’immagine.
Un compito di cui mi prendo cura ogni giorno.
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