Giocare col fuoco #11
Pranzo domenicale | stanchezza di guerra
Sfoglio un libro sul divano del salotto di casa di mia madre.
Dalla porta-finestra che dà sul terrazzo
arriva la sua voce.
Si lamenta con il compagno di mio fratello
di futuri, possibili traslochi.
S’impunta, è in rivolta.
Pare che non voglia accettare di vivere
come siamo costretti a vivere tutti noi altri.
Vorrebbe arrogarsi il diritto a una vita senza problemi.
Ed è assurdo che questa pretesa
arrivi proprio da lei
che dei problemi ha fatto un’intera esistenza.
Oppure è proprio per quello.
Forse mia madre è stanca di guerra.
21/10/2015, domenica, ore 15:00, Milano
Le telefonate con mio padre
Le telefonate con mio padre sono sempre piene di buchi, di crolli di silenzi,
di Pronto sei ancora lì?
Dopo le prime, brevissime battute, avverto subito la sua impazienza.
Vorrebbe scappare – dal telefono, da se stesso e dal suo ruolo nei miei confronti.
“Vabbe’, ci risentiamo,” mi dice sempre.
Io negli anni ho imparato a tenere duro.
E ho scoperto che se con caparbia pazienza
continuo a parlare, riesco ad abbattere quel muro
e a liberarlo.
Perché se all’inizio della telefonata – come accade anche ogni volta che ci incontriamo –
tenta vanamente come ha fatto per tutta la vita di immedesimarsi nel ruolo che la società della sua epoca assegnava a un padre (e cioè occuparsi principalmente degli aspetti pratici dell’esistenza: “Ti pagano?”, “Riesci a mettere insieme il pranzo con la cena?”), se tengo duro riesco a liberarlo, dicevo,
e a permettere al suo essere più intimo di affacciarsi timido, poco convinto, ma finalmente reale.
E allora, a volte, finisce anche che ci facciamo due risate.
A volte.
Mia figlia, oltre il muro,
fa pernacchie a tutto spiano.
Un pezzo di luna nel cielo qui di fronte
una sedia comoda sotto di me
e uno strano silenzio nel petto.
La voglia feroce di restare vivo.
Benevento, primavera 2016