CINQUE EURO TRE BACI
La prima volta che l’ho visto è stato quest’estate, verso la fine di luglio. Ero seduto a uno dei tavolini esterni del Tipota. Ci vado spesso quando mi è possibile, a scrivere, a bere qualche birra in santa pace, a pensare alle cose che voglio fare.
“Ciao Fabrizio, ti ricordi di me?”
Certo che mi ricordavo di lui. È anche lui un ex ragazzo del quartiere.
“Sono il figlio di Franco, ti ricordi di me?”
Franco era un tale che per un po’ ha collaborato con la mia squadra di calcio, non saprei dire esattamente cosa facesse, ma veniva alle partite e agli allenamenti. Una testa calva da chierico, fisico brevilineo e nervoso, corporatura, pelle e parlata profondamente meridionali. E il sorriso pure.
“Certo che mi ricordo di te, sei Andrea.”
Gli occhi gli si illuminano. Ha quattro o cinque anni meno di me ma ne dimostra una quindicina di più. È gonfio e sporco.
“Ah, che bello che ti ricordi. E ti ricordi anche Sergio e Luca?”
Mi ricordo, sì, mi ricordo tutto. Le facce, le mani, la fine che hanno fatto. Lui, Andrea, a un certo punto aveva iniziato a fare il dj, sembrava promettere bene, era molto impegnato, serata dopo serata, soldi in tasca, occasioni.
“Come stai, cosa fai?” gli chiedo, per cercare di capire. “Come sta tuo padre?”
“Eh, Franco non c’è più. Da qualche anno. I polmoni, un brutto male.”
Noto subito che non dice “mio padre” ma lo chiama per nome, come fosse un estraneo.
E aggiunge qualcosa che non me la sento di scrivere. Poi continua così.
“Adesso dormo davanti alla chiesa. Mia madre è in ospizio, da quando ha lasciato la casa popolare non mi ci hanno fatto più entrare. E niente, vivo per strada. In inverno vado nei ripari del comune. Ma d’estate preferisco stare all’aria aperta. In quei posti ci entri alle sei di sera e ti buttano fuori alle sei del mattino. Mezza giornata di fila per avere il posto. Poi una volta dentro non vedi l’ora di uscire. Così d’estate dormo qui in giro, al parco, o dove capita. Almeno sono libero.”
Gli chiedo se ha bisogno di qualcosa – che domanda del cazzo –, gli chiedo se posso offrirgli un panino, una birra.
“Panino no, ho già mangiato. La birra sì, ma non qui. Cinque euro per una birra è da imbecilli. Ma se mi dai un euro vado dall’indiano e me ne prendo una lì.”
Apro il portafogli sapendo che dentro non c’è niente, odio il contante, non lo uso mai. Raccatto una settantina di centesimi, mi scuso, gli chiedo ancora se non vuole mangiare qualcosa, lui dice che vanno bene quegli spicci, che in qualche modo troverà i trenta centesimi che mancano.
“E un po’ di tabacco magari,” aggiunge, facendo cadere l’occhio sul mio Pueblo giallo sul tavolino.
Gliene do una manciata. “Filtri e cartine ce li hai?” gli chiedo.
“Sì, sì, tranquillo.”
Mi ringrazia una, due, cinque volte, poi se ne va, continuando a voltarsi di quando in quando per salutarmi ancora e ancora con il braccio alzato. Prima di voltare l’angolo urla “Grazie Fabrizio” per l’ultima volta.
Lo rivedo tempo dopo, sempre al crocicchio del Tipota. Non sono solo stavolta. Mi vede dall’altra parte della strada, mi chiede con un cenno se può avvicinarsi, o perlomeno questo è quello che mi sembra di capire, e io gli faccio un gesto chiaro: vieni, vieni.
In un attimo è da me. “Ciao Fabrizio, amico mio,” mi dice. Non è in sé questa sera, forse è già sbronzo. Resta al tavolo per una manciata di minuti, il tempo di ripetere più o meno la stessa conversazione dell’altra sera, più o meno con gli stessi esiti. Dopo se ne va e credo si fermi sul marciapiede poco oltre, da dove, non visto, lo sentiamo lamentarsi, sbraitare. Mi chiedo se non sia il caso di chiamare un’ambulanza. Poi temo un intervento della polizia. Dopo qualche minuto decido che forse è meglio non chiamare nessuno – perché davvero temo che i risvolti di un’azione a fin di bene potrebbero rivelarsi diversi da ciò che uno si aspetterebbe – e spero che si addormenti al più presto.
Dopo un po’ esce uno dei ragazzi della nuova gestione del Tipota, mi chiede se lo conosco davvero, se mi chiamo davvero Fabrizio. Gli dico quello che c’è da dire, sembra molto preoccupato anche lui. Dopo un po’ non sentiamo più niente. Se vi dicessi che quando ci siamo alzati dal tavolino ho trovato il coraggio di voltare l’angolo per vedere come stava vi mentirei. No, non l’ho fatto.
Stamattina ho accompagnato mia figlia al campo estivo organizzato prima dell’inizio della scuola. Ci salutiamo all’ingresso, poi prendo la bici e mi dirigo verso un bar di via Meda per un caffè e per prepararmi alla giornata che mi attende. Sto quasi per andarmene quando compare.
“Ciao Fabrizio, amico mio!”
“Ciao Andrea, come stai?”
Stamattina sembra calmo. È sempre gonfio, meno sporco dell’ultima volta. Mentre scambiamo due parole mi viene in mente che questa volta dovrei avere cinque euro nel portafogli. Gli chiedo se ha mangiato, se vuole che gli paghi la colazione.
“Sì, grazie,” mi risponde. E io bello felice stavolta prendo il portafogli e – sì, c’erano – gli consegno i cinque euro, scusandomi per le altre volte in cui ero senza contante. Lui li prende, e mentre mi accorgo che il ragazzo al tavolino accanto al mio sta osservando la scena sorridendo, Andre si china verso di me e mi dà due baci. Sulla guancia, uno dopo l’altro. Come se fosse la cosa più normale del mondo. E in effetti lo è.
Non faccio in tempo a capire cos’è successo che lui è entrato nel bar. Mi riscuoto dopo un attimo e decido di entrare anch’io con la scusa di pagare la mia consumazione per controllare che venga trattato decentemente. Lo trovo alla cassa, il ragazzo gli sta consegnando un pacchetto di sigarette.
“Ma non dovevi fare colazione?” gli chiedo, calmo.
Lui mi risponde con un: “Guarda, sono a posto,” e mi mostra il contenuto del borsone che si porta appresso. All’interno vedo stipati focacce e francesini, dono, immagino, di un panettiere della zona.
“Ok,” gli dico, “bene, l’importante è che mangi anche.” A quel punto lui mi dà un ultimo bacio sulla guancia e scompare fuori dal bar.
Prendo la bici e torno verso casa con un sacco di pensieri in testa. Chi sono i poveri? Cosa sono i poveri per noi? Come li consideriamo? C’è una sola risposta a questa domanda: nella migliore delle ipotesi, li trattiamo come bestie da sfamare. E allora giù di pacchi di riso e pasta. Come mi ha spiegato un paio di anni fa un volontario di una colletta alimentare, i generi più richiesti e meno donati sono gli articoli per l’igiene: bagnoschiuma, shampoo, deodoranti, assorbenti, pannolini per bambini, creme per il culetto dei lattanti, creme per i capezzoli delle donne che allattano, e via dicendo. È come se noi considerassimo i poveri solo per la loro condizione economica, come se bastasse riempirgli lo stomaco per tramutarli – puf – in esseri umani veri e propri. E invece no. E di certo non l’ho capito stamattina. Però devo ammettere che nei due incontri precedenti con quest’uomo le mie preoccupazioni sono state di tipo materiale: dove dorme? Ha da mangiare? E al limite: Ha la possibilità di lavarsi? Ma quando oggi mi ha dato tre baci, un gesto che mi è parso sul momento talmente scioccante quanto naturale, necessario, sensato, normale, quasi banale addirittura, ecco allora ho cominciato ad analizzare la questione anche sotto un’altra prospettiva, quella dell’umanità vera e propria. Quanto vale essere amati dal punto di vista economico? A quanti punti di PIL corrisponde? E il bisogno di avere qualcuno vicino, soprattutto nei momenti di disperazione? Cosa vuol dire desiderare qualcuno accanto a sé non quando si dorme in un letto ma su un marciapiede? Che tipo di solitudine dev’essere, quella? Cosa si sogna dal punto di vista affettivo? Cosa si può mai desiderare? Eppure questi sono bisogni propri dell’essere umano. Che risposte forniamo noi come individui e come società a queste situazioni? Dove abbiamo perduto tutto quello che abbiamo perduto? Cosa siamo noi, in definitiva? A cosa serviamo? C’è una via d’uscita? Oppure una strada da seguire per il futuro? O vogliamo continuare a considerare i poveri come oggetti economici? Gli possiamo dar da mangiare, ma altro no, per carità. Altrimenti non sarebbero poveri. Cosa possono comprare con il reddito di cittadinanza? Solo generi alimentari, per carità, che scandalo, si comprano le sigarette e l’alcol con quei soldi. Sigarette e alcol. Se ne ho bisogno io, che nonostante tutta la fatica faccio decisamente parte della fascia fortunata del mondo, perché mai queste persone non dovrebbero aver bisogno di alcol e tabacco? Negli Stati Uniti, il cavallo di battaglia dei repubblicani contro i food stamp (cioè le elargizioni del governo ai meno abbienti) è che, come poi succede davvero, questi vanno a cambiarli al supermarket con i contanti per potersi comprare alcol e sigarette e droga. Vi diamo i soldi ma ci comprate quello che diciamo noi. Perché non siete liberi. Perché non avete dignità di esseri umani. Perché siete poveri. Poveri, che brutta parola. Sarebbe ora che capissimo tutti quanti, io per primo per carità, che non bastano il pane, un giaciglio e un tetto sopra la testa.
Ma ci vogliono anche i baci.
Un sacco di baci.
TRE POSTILLE
1. I nomi delle persone sono di fantasia.
2. Qui non si parla di me. Se dovessi vantarmi di aver dato qualche euro a una persona in difficoltà sarei un poveraccio molto più di quanto già non sia.
3. Se vi viene in mente di commentare con qualche stronzata protofascista, andate a farvi un giro che non è aria.