Canzoni, stanchezza, scrivere, leggere
Canzoni
“Questo ritornello è così bello che vorrei sentirlo subito un’altra volta” dice Giuliano, dopo aver ascoltato il mio provino di uno dei pezzi su cui stiamo lavorando. Poi si alza e va a sedersi al pianoforte. “Io lo ripeterei almeno tre volte, magari con una variazione in mezzo” suggerisce, mentre si mette a canticchiare la melodia muovendo con grazia le mani sul piano.
Meno di mezz’ora dopo, abbiamo la nuova versione del ritornello, con un accordo nuovo nel mezzo e due versi in più, che ho scritto dopo aver protestato blandamente, ridendo – “Vabbè ma vuoi farmi proprio lavorare, devo scrivere altri due versi per questo nuovo ritornello.” Comunque, i versi sono apparsi magicamente sul mio quaderno, precipitati all’improvviso da quel luogo lassù dove giacciono tutte le canzoni, le poesie, le melodie in attesa di essere portate tra noi sulla terra da un pescatore come me. Ovviamente le cose migliori sono intercettate e pescate dai migliori tra noi – Dylan, Nick Cave e via discorrendo – ma la pozza in cui giacciono tutte insieme è la stessa. Dipende tutto dalle tue doti di pescatore.
Comunque, è la prima volta che permetto a un produttore di mettere così tanto le mani nelle mie canzoni. Prima non ero in grado di farlo. Le cose accadano sempre e solo quando devono, non un secondo prima, non un istante dopo. Io francamente mi sento molto sollevato da questa mia nuova capacità. Cambiare, cambiare, cambiare. Forse abbiamo un solo modo per conservare le parti di noi che ci sembrano essenziali, meritevoli, quelle che fanno di noi ciò che siamo o forse solo ciò che pensiamo di essere. Quelle a cui torniamo quando non c’è davvero nient’altro a cui aggrapparsi. E poi è anche una questione di persone. Quello è sempre un elemento essenziale: le persone.
Questo mi fa venire in mente anche un concetto illuminante esposto da Springsteen nel suo speech al SXSW di qualche anno fa – ogni anno i direttori del festival affidano una specie di lezione a un artista. Nel suo discorso, che tra l’altro è davvero molto divertente, si trova su YouTube, il nostro espone un concetto a cui torno spesso quando sono in ambasce, artistiche o meno. Per essere artisti – e forse, aggiungo io, anche per essere Uomini e Donne degni di questo nome – bisogna essere in grado di albergare nella propria mente due concetti contraddittori: “Questa canzone è eccezionale” e insieme “No, fa schifo”; “Sono un grande” e “No, faccio cagare”. E soprattutto: “Questa roba è tutta la mia vita” accanto a “In fondo è solo rock’n’roll”.
Stanchezza
Stanotte ho dormito quasi dieci ore. Ma avverto una stanchezza che non sembra aver intenzione di andarsene. Forse è solo l’età che avanza, forse è solo il risultato di questi ultimi anni. Stamattina ho visto una parte del reportage di Francesca Mannocchi trasmesso all’interno di Propaganda. Una signora ucraina, sopravvissuta all’occupazione russa della sua città, ha detto una cosa molto semplice: “Siamo vivi. È quello che dovevamo fare. Sopravvivere.”
È molto strano quanto probabilmente inutile cercare di individuare il senso reale di una frase come quella mentre la guerra la si osserva soltanto da uno schermo – e in alternativa si può pur sempre decidere di non osservarla affatto.
A Milano c’è il sole, aria secca, vento forte. La magnolia nel mio cortile e quella nel palazzo di fronte sono fiorite e sfiorite come sempre nel giro di una settimana. E non posso impedirmi di pensare a dove saremo tra un anno, quando i petali rosacei e carnosi faranno di nuovo la loro comparsa su quei rami.
Scrivere
Ricordo ancora le mie polacchine color marrone che balzellavano sul marciapiede. La mano destra stretta nella sinistra di mia madre. Indossavo una salopette di jeans, con la mia chiave inglese di plastica rossa nella tasca davanti, e un berretto verde da meccanico in testa. Quando mia madre mi portava in officina da mio padre era una festa. Non mi accorgevo neanche che si parlavano a stento. Io ero tutto preso dai motori, dalle ruote, dalle macchine che venivano issate su quella specie di binari mobili – se ti infilavi lì sotto potevi vedere la marmitta, la trasmissione e tutto il resto. L’officina era all’interno di un cortile sul quale affacciava una pasticceria e l’odore dell’olio e della benzina si mischiava a quello dei dolci. Ogni volta che mia madre e io andavamo a trovarlo, la sera mio padre si presentava a casa con un sacchetto di biscotti rotti.
Un giorno mia madre mi accompagnò all’officina e se ne andò subito per sbrigare delle commissioni. Ricordo come fosse ieri la felicità che provai all’idea di restare da solo in officina con mio padre. Il pomeriggio passò in un lampo. Avrei voluto fargli un milione di domande ma restai in silenzio. Osservai tutti gli utensili disposti in ordine sulla parete di fronte al banco di lavoro e studiai le forme diverse delle macchie d’olio che ricoprivano il pavimento. Quella sera, prima di tornare a casa, mio padre mi afferrò per un braccio e mi tirò in un angolo dell’officina.
“Tu non devi fare questa vita. Non te lo permetterò. Hai capito?”
La sua presa stringeva sempre di più.
“Tu devi studiare. Devi essere migliore di me.”
Il suo fiato di alcol mi entrò negli occhi. Li chiusi, ma lui continuò a urlare. Il mattino dopo, quando mi sfilai la giacca del pigiama, scoprii dei segni scuri sul mio braccio destro nel punto esatto in cui la mano di mio padre mi aveva stretto.
Questo qui sopra è un estratto da Katana, il mio romanzo, che ho deciso di ristampare dato che era esaurito ormai da tempo. Rileggendo questo passo mi chiedo: quante altre volte potrei scrivere ancora di questi temi? Quante altre pagine potrei dedicare a padri, madri, bambini, all’innocenza che perdiamo, chi prima chi poi, rapportandoci a quel mondo adulto che sebbene fallace e imperfetto – come scopriremo, per l’appunto, chi prima e chi poi – riteniamo un modello a cui uniformarci? Valerio Magrelli è uno tra i pochi scrittori che fa una cosa che a me sembra del tutto ovvia e naturale: fregandosene dei meccanismi dell’industria culturale, nei suoi libri cita e riutilizza spesso passi, brani, poesie di opere vecchie di anni e già pubblicate in altre forme. Cioè, quando uno scrittore scrive qualcosa gli appartiene per sempre, e dovrebbe essere suo diritto poter tornare su quelle parole, magari per ricontestualizzarle, magari per trarne nuovi concetti, ispirazione, nuove direzioni. Anche perché mi sembra che alcuni discorsi non si possano mai chiudere, sono talmente connaturati alla nostra vita stessa che saranno sempre in divenire, perlomeno fino al giorno in cui il nostro cervello non abbasserà le serrande.
Strangest Thing
È un brano dei War on Drugs da cui sono letteralmente ossessionato da un paio di settimane. Sono fatto così, a volte mi imbatto in qualcosa che entra perfettamente negli ingranaggi del mio cervello e della mia sensibilità e diventa quasi impossibile scacciarlo.
C’è l’impalcatura sonora epica e malinconica, accordi semplici di chitarre e sinth affogati in un mare di eco e di riverbero. Poi c’è questa voce trascinata e dolente del cantante, su una melodia che cambia continuamente con una cadenza altalenante che ovviamente a me ricorda Dylan. Anche nel testo ci sono evidenti echi dylaniani, ma nella cultura popolare non si butta via niente, e questa è la sua forza. Una catena ininterrotta di suggestioni che si nutrono di volta in volta di nuove sensibilità, di nuovi decenni, di nuove immagini.
I’ve been living in the space between the beauty and the pain.
Ci vuole un talento enorme per inchiodare l’intera umanità con un solo verso. Per descriverci tutti con una manciata di parole gettate quasi a caso su una melodia che tra tre secoli sarà ancora in grado di accapponare la pelle a qualcuno.
Cosa sto leggendo
Da anni ormai leggo anche quattro o cinque libri insieme, e da quando faccio Giocare col fuoco in radio questa mia naturale tendenza è pure peggiorata. E dico peggiorata perché mi piacerebbe avere la tranquillità per leggerli uno alla volta, questi stramaledetti, adorati libri. Comunque, vi lascio qualche titolo.
Agustin Fernández Mallo, Trilogia della guerra (trad. Silvia Lavina, Utopia editore)
Tre personaggi, tre luoghi diversi – L’isola di San Simón, il Vietnam e le coste della Normandia – per raccontare ciò che rimane quando qualcosa finisce. Questo qualcosa in questo caso è la guerra – sull’isola c’era un campo di concentramento franchista – il cui riverbero, reale o soltanto sognato, immaginato, psicologico, sembra invece non voler svanire.
“Ci fu un momento in cui le cose tra noi cambiarono. Non mi sento di dire che fossero cambiate del tutto, ma presero una strada che nessuno dei due conosceva. Una sera, eravamo entrambi a casa, prima di andare a dormire, lui chiuse la porta a chiave. Fino a quel momento avevamo dormito senza quella misura di sicurezza che sembra avere una funzione precipua: impedire che estranei si intrufolino in casa. Ripensandoci ora, non so come non mi resi conto che con quel gesto lui stava impedendo l’esatto opposto: che nessuno dei due uscisse. Ecco, sulla costa della Normandia, pensai che ciò che volevo scoprire era come aprire quella porta, ancora chiusa dall’interno.”
Charles D’Ambrosio, Perdersi (trad. Martina Testa, minimum fax)
Una vera chicca che ho ripescato nel sempre ottimo catalogo dell’editore romano. Una raccolta di saggi autobiografici – new journalism, narrative non-fiction, per gli amanti delle etichette – scritti con l’inchiostro della verità. Molto toccante, almeno per me, ovviamente.
“Per Seattle ci cammino. Cerco di osservarlo, questo nuovo mondo di speranza e di bella vita, ma in qualche parte del mio cervello è sempre il 1974 e sta sempre piovendo e sono un ragazzino, e un uomo con un carrello da supermercato pieno di carne rubata passa sferragliando lungo il marciapiede rincorso con triste entusiasmo da garzoni in grembiule addetti a imbustare la merce, che sono in realtà uomini fatti e finiti, licenziati dalla Boeing e ridotti a fare i crumiri part-time da Safeway.”
Alberto Moravia, La ciociara (Bompiani)
Lo sto rileggendo a distanza di decenni dalla prima volta. La prosa di Moravia mi lascia sempre di sasso. Ti fa venire voglia di scrivere e allo stesso tempo di non avvicinarti mai più a una penna.
“Tutto il mese di marzo, mentre le giornate si allungavano e lentamente la montagna ricominciava a verdeggiare e l’aria si faceva più dolce, continuò il bombardamento di Anzio da una parte, di Cassino dall’altra. Stavamo, per così dire, a metà strada tra Anzio e Cassino e tutto il giorno e tutta la notte sentivamo benissimo i cannoni che sparavano in quei due luoghi, senza tregua, come se avessero gareggiato. Tum, tum, tum, diceva il cannone di Anzio prima con l’esplosione di partenza e poi con quella di arrivo; tum, tum, tum, rispondeva quello di Cassino, dall’altra parte. Il cielo sembrava una pelle di tamburo e quei cannoni vi rimbombavano sordamente e cupamente, proprio come quando si sferra un pugno sopra una grancassa.”
Daina Opolskaite, Le piramidi di giorni (trad. Adriano Cerri, Iperborea)
Racconti, un titolo ottimo per gli amanti del genere. L’autrice è lituana, e il suo modo di raccontare, di esporre i fatti che decide di esporre, mi ha lasciato davvero spaesato, sia per le storie in sé sia per come ammucchia le parole e le frasi l’una dopo l’altra. Un libro che di sicuro fa riflettere sulla scrittura, sulle forme che può assumere, sulla libertà che può concedersi uno scrittore, sempre a patto che sia dotato di uno sguardo sull’umanità comparabile a quello di questa autrice.
“Già da qualche giorno sembrava tutto trasparente, come di vetro. La sfarzosa bambola di porcellana di sua sorella, con gli abiti eleganti e un cappelletto di raso a piegoline che ne rendevano irregolare il profilo, giaceva crollata sul davanzale. Era una cosa strana, inquietante: vivi per una quantità incalcolabile di tempo con gli stessi rumori, gli stessi oggetti e le stesse persone che ogni giorno ti stanno davanti, oppure ti si muovono intorno seguendo orbite precise, e poi un giorno, chissà come, ti prende questa perfida sensazione, e ti circonda: un senso di forme vuote.”
John Williams, Nulla, solo la notte (trad. Stefano Tummolini, Fazi editore)
Noto al grande pubblico per Stoner, Williams è un narratore eccelso, uno di quelli di cui bisognerebbe leggere ogni cosa abbiano pubblicato.
“Fu in quel momento che Arthur ebbe un’intuizione, che annullò il panico che gli cresceva dentro. Come in lontananza, trasfigurato da un velo di foschia, vide suo padre per la prima volta. La visione gli restò impressa nella memoria per un solo secondo; ma in quel battibaleno comprese molte cose. Anche se in modo diverso, l’uomo che aveva davanti sentiva e ricordava, sentiva e ricordava proprio come lui. L’uomo che aveva davanti, quel padre che non conosceva, si rivelava, inaspettatamente, ossessionato dagli stessi sentimenti, dalle stesse immagini, dagli stessi ricordi che – più o meno – ossessionavano anche lui.”
Chiudo con i miei Percorsi Americani, che si avvicinano alla conclusione: ultimi due appuntamenti con La strada di McCarhty e Furore di Steinbeck, come al solito in presenza qui a Milano da Germi oppure online. Tutte le informazioni le trovate qui, incluso il pacchetto scontato per entrambi gli appuntamenti sia in presenza che online.
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