Che cos’è l’America?
L’America è una nazione, stretta tra due oceani, schiacciata a nord dalle nevi quasi perenni del Canada e a sud dalle distese desertiche riarse dal sole delle propaggini settentrionali del Messico. Una nazione costruita sul sangue e con il sangue. Una nazione nata da un’invasione, da un vero e proprio genocidio. Costruita con la violenza e la tecnologia, con le armi e l’ingegneria.
“La locomotiva ha la strada segnata, il bufalo può scartare di lato e cadere.”
Una nazione di gente in perenne movimento, movimento fisico, mentale o spirituale. Una nazione che ha conosciuto e conosce la povertà più estrema e le ricchezze più magnifiche mai realizzate. Una nazione in cui, si dice, è possibile farsi strada grazie al proprio talento. Alla capacità visionaria di sognare. Una nazione che ha inventato una propria versione del sogno, il Sogno Americano. Ma anche questo sogno, come tutti i sogni, prima o poi impone un prezzo da pagare.
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Se a ciascuno di noi venisse rivolta la domanda: “Che vita vorresti vivere, quella di Raymond Carver o quella di Bruce Springsteen?” credo che nessuno avrebbe dubbi. Sebbene provenissero da uno stesso luogo mentale e abbiano condiviso le stesse difficoltà nei rapporti sentimentali– oltre a essere condannati alla solitudine interiore dell’artista –, le loro esistenze sono state diverse, tenendo conto del fatto che, Dio o chi per lui ce lo conservi, il secondo è ancora in vita. Mentre il Boss si sfiancava sera dopo sera sul palco nelle ormai leggendarie maratone di tre ore e passa, Carver si consumava alla scrivania, sulla macchina da scrivere. E alla bottiglia. Ottenuto il successo, entrambi hanno dimostrato di volersene allontanare: il primo dedicandosi alla poesia dopo aver ottenuto finalmente una vasta eco con i suoi racconti, l’altro pubblicando un disco amaro e intimista sulla fine del suo matrimonio dopo il successo stratosferico di Born in the USA. E quando sembrava che Carver, accanto a Tess Gallagher, potesse finalmente godere di una qualche serenità, la malattia, che lo porta via prematuramente.
Analizzando la loro poetica, le dichiarazioni, le interviste, vengono fuori un sacco di affinità. Per esempio, un brano di un’intervista a Carver pubblicata nel 1983: la cosa stupefacente è che a parlare potrebbe essere lo stesso Springsteen.
Domanda: I tuoi personaggi cercano di realizzare ciò che reputano importante?
Risposta: Credo che ci provino. Ma provare e riuscirci sono due cose diverse. Alcune persone ce la fanno sempre. E credo che sia grandioso, quando ciò accade. Altre, invece, non riescono a ottenere ciò che desiderano, ciò che vogliono fare con tutte le loro forze ‒ le grandi o piccole cose che danno senso all’esistenza. Queste vite, naturalmente, rappresentano un materiale molto interessante per uno scrittore. La gran parte della mia esperienza, diretta o indiretta, è collegata a questo genere di situazioni. Credo che quasi tutti i miei personaggi vorrebbero che le proprie azioni servissero a qualcosa. Ma allo stesso tempo hanno raggiunto un punto ‒ come succede tantissime persone ‒ in cui hanno la consapevolezza che non è così. Che non ha più senso. Le cose che un tempo reputavi importanti, per le quali saresti morto, ormai valgono meno di un nichelino. Sono a disagio con la propria vita, che hanno visto andare in pezzi. Vorrebbero sistemare tutto, ma non possono. E, di solito, ne sono consapevoli, credo. Dopodiché, continuano a cercare di fare il meglio che possono.
[Intervista a RC a cura di Mona Simpson, Lewis Buzbee, pubblicata sul numero 88 di “The Paris Review”, estate 1983; traduzione mia.]
È scontato, leggendo queste parole, tornare con la mente al testo di The River:
Now all them things that seemed so important
Well mister they vanished right into the air
Now I just act like I don’t remember
Mary acts like she don’t care
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Una meravogliosa ricompensa
Blu oltremare è la prima raccolta di poesie di Carver che ho letto. Un regalo di mio fratello Macs per un Natale di non so più quanti anni fa ‒ non ho ancora smesso di ringraziarlo. Era un’edizione Pironti, con la copertina tutta blu e la foto dell’occhio di una donna in un angolo in alto. Poi in seguito ho preso anche quella di minimum fax, nella traduzione di R. Duranti. Quel libro mi ha letteralmente cambiato la vita: fin dall’università, leggevo e scrivevo poesie ‒ oltre alle mie prime canzoni ‒ nel modo in cui va fatto a vent’anni. Senza pensarci troppo, prendendo spunto da ogni cosa. Usavo una macchina per scrivere, addirittura ‒ l’uso comune dei PC era di là da venire. Per farla breve, questa poesia, in particolare, che riporto interamente qui sotto, mi aveva sconvolto. E lo aveva fatto per diversi motivi. Innanzitutto una sensazione di quiete che mi lasciava inebriato e speranzoso. Inoltre il senso che l’episodio narrato racchiudesse e fosse la conseguenza di un ’prima’ e di un ’ancora prima’. Con ogni cosa andata finalmente a posto nel momento fissato dalla poesia. E poi c’è l’immagine della donna che va al gabinetto. Nonostante Bukowski e tutti gli esponenti del dirty realism di cui avevo letto le opere, non avevo mai conosciuto un autore in grado di descrivere con tale semplicità e grazia una scena come quella.
Mentre scrive, senza guardare il mare,
sente la punta della penna che comincia a vibrare.
La marea si ritira sulla ghiaia.
Ma non è per quello. No,
è perché lei sceglie proprio quel momento
per entrare nella stanza senza nulla indosso.
Insonnolita, neanche tanto sicura di dove si trova
per un momento. Si scosta i capelli dalla fronte.
Si siede sulla tazza con gli occhi chiusi,
il capo chino. Le gambe allargate. Lui la vede
dalla porta. Forse
sta ricordando cosa è successo la mattina.
Perché dopo un po’ apre un occhio e lo guarda.
E sorride dolcemente.
[RC, “Un pomeriggio”, da Blu oltremare, trad. R. Duranti, 2003 minimum fax]
E poi c’è questo senso di ricompensa. Di qualcosa che si è risolto. Di un’attesa e di una fatica che non sono state vane. Il che mi ha fatto sempre venire in mente questa canzone, la cui ultima strofa dice:
Tonight I can feel the cold wind at my back
I’m flyin’ high over gray fields my feathers long and black
Down along the river’s silent edge I soar
Searching for my beautiful reward
Searching for my beautiful reward
Stanotte posso sentire il vento freddo alle mie spalle
Sto volando alto su campi grigi, le mie piume sono lunghe e nere
Plano verso il basso sull’argine silenzioso del fiume
In cerca della mia meravigliosa ricompensa
In cerca della mia meravigliosa ricompensa
[BS, My Beautiful Reward, “Lucky Town”, traduzione mia]
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Raymond Carver nacque il 25 maggio del 1938 nella cittadina di Clatskanie, nell’Oregon. Come molti altri americani, nel periodo antecedente alla Seconda Guerra Mondiale, i Carver avevano lasciato il natio Arkansas e si erano trasferiti all’Ovest in cerca di un lavoro e di una vita migliore. Il trafiletto comparso su un quotidiano locale in occasione della nascita del piccolo recitava:
“Mr. And Ms. C.R Carver of Wauna welcomed a young son born at the Clatskanie Hospital on Wednesday. The baby weighed seven pound and two and three quarters ounces and has been named Raymond, Jr.”
Il viaggio verso l’Ovest in cerca di una nuova vita è uno dei miti fondativi della nazione americana, conquistata e strappata ai pellerossa con un’invasione partita dalla East Coast e indirizzata a colonizzare i territori centrali e dell’Ovest. Quello che successe prima della Seconda Guerra Mondiale, però, fu una vera e propria migrazione di massa: i contadini delle zone centrali del paese, ridotti sul lastrico dai cambiamenti intervenuti in seguito all’introduzione dell’agricoltura intensiva e alla conseguente meccanizzazione ‒ cambiamenti che furono tra le cause delle cosiddette Dust Bowl, le tempeste di sabbia, alle quali il padre della canzone folk americana, Woody Guthrie, dedicò una serie quasi infinita di canzoni ‒ emigrarono in massa verso la California, che allora appariva come una vera e propria Terra Promessa. Il cantore massimo di questo esodo fu ovviamente Steinbeck, che nel suo romanzo Furore descrive l’epopea di una famiglia di diseredati che intraprende il viaggio verso Ovest.
Ispirandosi a questo romanzo, uno dei capisaldi della letteratura statunitense del secolo scorso, Springsteen (che, guarda caso, si era da poco trasferito in California) compose alla fine del secolo un disco dolente sugli immigrati messicani e sui nuovi poveri che venivano in America illegalmente per cercare una vita migliore, “The Ghost of Tom Joad”.
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Quando arrivammo a Chester, papà abitava in una roulotte di proprietà della ditta. Non lo riconobbi immediatamente. Credo che per un momento non volli riconoscerlo. Era dimagrito, era pallido, aveva un’aria sconcertata. I pantaloni non gli stavano su. Non sembrava il mio papà. Mia madre cominciò a piangere. Papà le mise un braccio in vita e le diede qualche timida pacca sulla spalla, come se non sapesse perché stava succedendo tutto ciò. Tutti e tre cominciammo a vivere nella roulotte; badavamo a lui come meglio potevamo. Ma papà era malato e non migliorava. Lavorai con lui in segheria per quell’estate e parte dell’autunno. Ci alzavamo al mattino e mangiavamo uova e pane tostato ascoltando la radio, poi uscivamo portandoci i cestini per il pranzo. Insieme oltrepassavamo i cancelli alle otto del mattino, e non lo vedevo più da quel momento fino all’ora di chiusura. A novembre tornai a Yakima per stare più vicino alla mia ragazza, la ragazza che avevo deciso di sposare.
[RC, “Vita di mio padre”, da Voi non sapete che cos’è l’amore, trad. R. Duranti e F. Durante, 1998 minimum fax]
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Camminare come un uomo
Ricordo un pomeriggio di qualche anno fa, mentre passeggiavo con mia figlia sui lastroni in pietra del piazzale di fronte alla chiesa che frequentavo da bambino, in attesa che arrivasse la mia quota di welfare state che la repubblica italiana concede a noi genitori (mia madre). Passavo e ripassavo di fronte al portone — situato alla sommità di una scalinata fin troppo pretenziosa e chiusa da un’inferriata orrenda —, sperando che il dondolio ritmico assicurato dalle giunture sconnesse della pavimentazione spedisse la mia piccina nel mondo dei sogni, quando le campane avevano iniziato a rintoccare. E mi erano venuti in mente questi versi, da Walk Like a Man:
By our Lady of the Roses, we lived in the shadow of the elms
I remember ma’ dragging me and my sister up the street to the church,
whenever she heard those wedding bells
E poi subito dopo una foto del nostro in tenerissima età, con un meraviglioso taglio di capelli anni Cinquanta, uno di quelli che oggi costano 60 euro e un tempo erano appannaggio del proletariato. Ho pensato all’incredibile comunità di italiani e irlandesi che ha fatto da cornice all’infanzia del piccolo Frederick: uomini più veri del vero, lavoratori, poveri e meno poveri, schiacciati da frustrazioni e responsabilità, ognuno forse con un piccolo segreto da mantenere, un piccolo qualcosa che gli permetteva di andare avanti, perlomeno fino a quando riuscivano. E ho pensato che Springsteen avrebbe potuto cavarne fuori una maestosa Spoon River del XX secolo. Poi un attimo dopo mi sono detto che in realtà è ciò che ha fatto. Ha preso quel pugno di personaggi, ne ha isolato le caratteristiche comuni al resto dell’umanità e armato di questo patrimonio è riuscito a parlare a tutto il mondo, a gente che non condivideva nulla di quell’ambiente se non il fatto di appartenere al genere umano. Così è stato per me. E infinte volte mi sono chiesto come fosse possibile riuscire in una tale magia: parlare a un ragazzino di 15 anni di Milano raccontandogli storie ambientate nel New Jersey.
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Buttai giù una sorsata
Dalla bottiglia, poi
Un tom collins caldo,
poi un altro whisky.
E anche se andavo di stanza
In stanza, in casa non c’era nessuno.
Che fortuna, pensai.
Anni dopo,
avrei ancora scambiato
gli amici, l’amore, i cieli stellati
con una casa vuota,
senza gente, nessuno da aspettare,
e tutto il bere che serve.
[RC, estratto da “Fortuna”, da Blu oltremare, trad. R. Duranti, 2003 minimum fax]
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Quando ero un ragazzo, io e mio padre litigavamo sempre, quasi per qualsiasi cosa. Portavo i capelli molto lunghi, all’epoca, ben oltre le spalle. Avevo 17 o 18 anni e lui non poteva sopportarlo. Litigavamo così tanto che ero arrivato al punto di trascorrere un sacco di tempo fuori casa. D’estate non era male, faceva caldo e gli amici erano in giro. Ma in inverno, ricordo che rimanevo in centro e faceva così freddo… Quando c’era vento mi riparavo in una cabina del telefono, da dove chiamavo la mia ragazza, passavamo ore al telefono, parlando per tutta la sera. Poi alla fine trovavo il coraggio per tornare a casa. Mi fermavo nel vialetto e lui mi aspettava in cucina. Mi infilavo i capelli nel colletto ed entravo e lui mi chiamava e mi chiedeva di andarmi a sedere con lui. E la prima cosa che mi chiedeva era sempre cosa pensavo di fare della mia vita. E la parte peggiore era che non riuscivo mai a spiegarglielo.
Una volta feci un incidente in moto, rimasi bloccato a letto e lui chiamò un barbiere e mi fece tagliare i capelli. Merda, ricordo di avergli detto che lo odiavo e che non l’avrei mai dimenticato. In quel periodo non faceva che ripetermi: “Non vedo l’ora che ti chiami l’esercito. Quando ti chiamerà l’esercito ti faranno diventare un uomo. Ti taglieranno i capelli a zero e ti faranno diventare un uomo.”
Eravamo, credo, nel ’68, quando un sacco di ragazzi del quartiere partivano per il Vietnam. Ricordo che il batterista della mia prima band venne a casa con indosso l’uniforme da marine. Disse che stava partendo ma non sapeva neanche dove stesse andando. Un sacco di ragazzi partirono, e un sacco di ragazzi non tornarono. E quelli che tornarono non erano più come prima. Ricordo il giorno in cui ricevetti la chiamata di leva. Non lo dissi ai miei e tre giorni prima degli esami uscii con i miei amici e trascorremmo fuori quelle ultime notti. Quando salimmo sul bus qual mattino eravamo tutti così spaventati. E… fui riformato. Tornai a casa dopo essere scomparso per tre giorni ed entrai in cucina. Mia madre e mio padre erano seduti lì e lui disse:
“Dove sei stato?”
“Alla visita di leva.”
“E com’è andata?”
“Mi hanno scartato.”
E lui disse: “Va bene.”
[BS, discorso introduttivo a The River, dal “Live 1975-85”, traduzione mia.]
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Sabato 12 marzo, sul palco dell’Arci Bellezza di Milano, insieme all’amico Giuliano Dottori vi racconterò il resto della storia. American Life: Carver/Springsteen. Poesie, storie, canzoni. Qui le prevendite e tutte le informazioni.
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Quindi uno spettacolo su Carver-Springsteen c é stato! Accipicchia, allora ci ho preso, sarebbe stato bello esserci